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In questo articolo viene raccontato uno stralcio di un progetto assolutamente innovativo di gruppi psicologici e successivamente psicoterapia in carcere creato e gestito da me ed una collega, per l’Associazione Saman negli anni 2000-2005. Questo progetto verrà raccontato in due libri che sono al momento in lavorazione. L’articolo qui riportato è in pubblicazione all’interno di un altro libro che è una raccolta di articoli.
La madre: povero figlio mio, tanto bravo e tanto sfortunato!
Il figlio: quando torna papà?
Il poliziotto: ecco un altro delinquente assicurato alla giustizia!
Il Giudice: ha commesso un reato grave, deve scontare una pena di 25 anni, e reinserirsi nella società.
L’agente di polizia penitenziaria: vediamo come si comporta.
L’educatore: è necessario che vada ad incontrarlo appena possibile, ha bisogno di aiuto.
I compagni di sventura: è uno apposto.
si presenta al gruppo di psicoterapia in carcere in un giorno di novembre. È minuto, uno sguardo intenso nascosto da un berretto con visiera con cui si protegge dall’incrociare gli sguardi altrui. Un suo amico che lo voleva aiutare lo ha convinto a partecipare al gruppo.
Fa battute sarcastiche, è provocatorio. Sembra una bella sfida riuscire a costruire un rapporto di fiducia con lui. Gli altri detenuti sembrano avere un atteggiamento nei suoi confronti che va dal rispetto alla paura. Si presenta al gruppo guardingo, dicendo il minimo necessario. È in carcere da quando aveva 18 anni, ora ne ha 30. Sei mesi fa ha perso la moglie, e subito dopo ha tentato il suicidio. È condannato per omicidio. È molto legato alla madre ed al figlio di 12 anni. Ha ancora tanti anni da scontare. Per qualche gruppo non fa altro che ascoltare e parla solo per fare battute di sfiducia nei confronti di chi dovrebbe aiutarlo, ma secondo lui, non può capire o si spaventerebbe davanti a quello che si porta dentro.
Passano 4 o 5 gruppi, lo vedo sempre più magro e sempre più coperto da giubbotti e berretti. Dietro all’arroganza che mostra sembra profondamente triste. Lo invito a parlare. Inizia pian piano a parlare della moglie, all’inizio con diffidenza, poi più apertamente. Gli occhi gli si inumidiscono. Gli altri lo guardano ora con altri occhi, cercano di sostenerlo. Sembra portarsi sulle spalle un peso enorme. È addolorato, sperduto, disperato e non trova appigli.
Inizia tra me e lui un rapporto diverso. Lui parla, io ascolto. Non giudico, né consiglio. Faccio solo domande per aiutarlo a dire di più. L’elaborazione di un lutto è così. È inutile cercare qualcosa di miracoloso da dire. Passano mesi in cui utilizza i gruppi per parlare di lei, di quanto gli manca e di quanto è arrabbiato per tutto quello che gli è successo. Dopo 5 o 6 mesi sembra improvvisamente uscirne fuori, toglie il berretto, le battute sono ormai di complicità, non più arroganti, inizia a lavorare nella sezione, anche gli agenti con cui aveva un rapporto molto conflittuale iniziano a fidarsi di lui ed a trattarlo diversamente. Si descrive come una persona che non chiede mai aiuto. Non ha mai conosciuto suo padre. Subito dopo la morte della moglie uno psicologo del carcere lo aveva chiamato per sostenerlo e gli aveva detto che ora avrebbe potuto capire cosa avessero sentito i genitori del ragazzo che aveva ucciso. Lui era tornato in cella e si era appeso al soffitto. Lo avevano tirato giù appena in tempo, poi si era chiuso in sé stesso ed erano iniziati anche gli screzi con gli agenti. Ma ora si sentiva meglio. Certo il dolore rimaneva, ma lui poteva reagire in qualche modo.
Un giorno comunichiamo al gruppo di psicoterapia in carcere che il nostro lavoro lì, purtroppo, è sospeso (non ci sono più fondi). Gli altri partecipanti si rammaricano insieme a noi, ringraziano, fanno progetti per il futuro. Lui ha una reazione diversa. Mi attacca in maniera forte, cerca di scappare via dalla stanza, dice che questa è un’altra morte, è furioso ed esprime con la sua rabbia un gran dolore.
Con le poche possibilità che abbiamo, io e la mia collega decidiamo di prendere in carico con una psicoterapia individuale in carcere lui ed un altro detenuto con una pena ancora lunga da scontare. Faremo dei colloqui ogni 15 giorni, gli dico, finché è possibile.
Seguo C. in individuale da un anno circa; in tutto, da quel primo incontro in gruppo, sono passati quasi due anni. La relazione terapeutica con lui nei colloqui individuali è sicuramente più difficile da gestire: passa da periodi in cui si fida a periodi in cui di nuovo è provocatorio. Questi ultimi però durano sempre meno. In un anno è riuscito a raccontare e ricordare il reato che ha commesso, addolorandosi per questo. Ha parlato a lungo del suo rapporto con la madre e con il figlio. Sta ricostruendo pian piano la sua storia cercando di capire quali sono state le motivazioni che lo hanno portato dov’è ora.
Tra un anno forse uscirà ed è molto spaventato. Continua a sentire un distacco forte dalle persone, aggravato dalla consapevolezza di aver commesso un reato che non si perdona e che gli altri non gli perdoneranno.
Dopo la scarcerazione avrà ancora bisogno a lungo di continuare la psicoterapia. Starà a lui questa volta prendersi la responsabilità di impegnarsi nel chiedere aiuto e nel mantenere questa possibilità. Tutto ciò che gli altri hanno costruito in 30 anni, lui lo dovrà ricostruire in poco tempo.
Ora non porta più berretti, inizia a parlare con le persone, lavora e gli agenti hanno fiducia in lui e sta cercando di prendersi delle responsabilità adulte.
Questa è solo una delle migliaia di storie di persone che si trovano a scontare una pena per aver commesso reati. Il reato si inserisce spesso come un evento acuto ed importante nella vita di persone che hanno difficoltà. Tutti gli attori che ruotano intorno a questo evento: la persona che ha commesso il reato, i familiari, la polizia, il giudice, il perito, gli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori e gli altri detenuti possono avere un ruolo importante e delicato rispetto alla “rieducazione” del detenuto. Per far ciò, però, è necessario che ci sia un contenitore di significato che apre un ragionamento sistemico e sistematico su ogni singola persona che si trova a scontare una pena e che faccia da collegamento e da sostegno agli altri agenti di cura e di pena. Qualcuno che metta insieme tutti gli altri “agenti terapeutici” in un discorso di rete che dia senso alla persona e che la aiuti a comprendere ed a curarsi.
Il reato e la giusta pena, in questo discorso, possono essere un momento importante di presa di consapevolezza delle proprie difficoltà e di contatto con la realtà rispetto alle norme sociali in cui la persona vive. Questo però è possibile solo continuando ad ampliare il ragionamento sulla necessità di un lavoro psicoterapico con queste persone. Tale necessità si scontra con i problemi strutturali che ben conosciamo del sistema giudiziario e carcerario. Gli psicologi che lavorano in carcere sono pochissimi rispetto al numero dei detenuti. Questi psicologi, inoltre, sono stati abituati (non tutti chiaramente) a non poter riconoscere un importante ruolo alla psicoterapia in quel contesto. Si trovano a rivestire un doppio ruolo, di chi contemporaneamente ascolta e giudica, che sicuramente non è facile da mantenere.
È importante condurre un dibattito sempre più forte rispetto al ruolo dello psicoterapeuta in carcere. Legata a questo c’è la necessità di ragionare sull’ annoso problema etico ed epistemologico sul rapporto tra pena e cura. Partendo dal significato della pena, si sono sviluppati negli anni tre principali modelli: quello retributivo (esclusivamente punitivo), quello rieducativo-trattamentale ed infine, ultimamente, ma soprattutto nell’ambito della giustizia minorile, quello riparativo (nei confronti della società). Stiamo assistendo ad un lento processo per cui tali modelli sempre più vengono intrecciati tra loro. Questo va con un certo livello di consapevolezza circa l’inutilità, se non il danneggiamento, provocati dall’utilizzo della sola pena detentiva nella cura della devianza.
Inoltre, la consulenza ed il trattamento da parte di équipe di professionisti nell’ambito dei procedimenti penali, sempre più assumono un ruolo importante. Si pensi per es. agli ultimi gravi episodi di cronaca (ad es. quello che ormai viene definito il delitto di Cogne) ed il ruolo che le perizie psichiatriche hanno avuto e stanno avendo in questi. Le perizie psicologiche e psichiatriche entrano nell’ambito giudiziario fondamentalmente per valutare le capacità di intendere e di volere dell’imputato e la pericolosità sociale di quest’ultimo. Sulla base anche di queste indicazioni i Giudici stabiliscono le pene per gli imputati. In carcere, sebbene con i pochi mezzi che purtroppo vengono finanziati dallo Stato italiano, ogni detenuto può usufruire di un trattamento.
Tutto questo si basa su un presupposto: il reato è un episodio che spesso si inserisce nella vita di una persona che ha delle difficoltà personali, familiari, sociali. Curando le persone, si può evitare che commettano reati. La psicoterapia in carcere funziona.
E qui finalmente giungiamo ai quesiti su cui cominciare ad alzare la voce: perché non viene garantita una presa in carico psicoterapeutica del detenuto? Che senso ha che non ci sia uno spazio di formazione, consulenza e collegamento per tutti gli attori di queste vicende (giudici, polizia, educatori, agenti di polizia penitenziaria)? Inoltre, se la pena viene decisa anche in base alla pericolosità sociale ed alla capacità di intendere e di volere, come mai poi non si cura la persona e non vi è un monitoraggio circa questi tre criteri ed una conseguente revisione periodica della pena e della sua forma?
Rivisitazione di un articolo già pubblicato, diritti d’autore riservati. Anteprima del libro in uscita: Raccolta di Articoli (1996-2024), Silvia Garozzo.